L’eredità inquieta di Riace

C’è un silenzio surreale che avvolge Riace. La Cassazione ha messo la parola fine al processo Xenia confermando che il “modello Riace” non era fraudolento e che Mimmo Lucano non si è arricchito, ribaltando quella condanna di primo grado a 13 anni e due mesi che aveva travolto il sindaco. Resta solo un falso…

L’eredità inquieta di Riace

17 Novembre 2025

by Tommaso Scicchitano

L’accoglienza in Calabria tra sistema e giustizia

C’è un silenzio surreale che avvolge Riace. La Cassazione ha messo la parola fine al processo Xenia confermando che il “modello Riace” non era fraudolento e che Mimmo Lucano non si è arricchito, ribaltando quella condanna di primo grado a 13 anni e due mesi che aveva travolto il sindaco. Resta solo un falso relativo a una sola delle 57 determine, con condanna a 18 mesi e pena sospesa. Eppure, mentre la giustizia riabilitava un’esperienza definita capace di “alimentare una economia della speranza” con l’unico obiettivo di “aiutare gli ultimi”, il progetto stesso langue. Le case, un tempo abitate da famiglie siriane ed eritree, tornano a svuotarsi. I laboratori artigianali rallentano. Il paradosso è bruciante: la sentenza assolve, ma Riace resta fermo.

La tentazione è credere che con Riace sia finita un’epoca. Non è così. L’eredità del borgo ionico non è morta: si è trasformata, ramificata, istituzionalizzata. In Calabria operano 119 progetti SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) che accolgono quasi 4mila persone, una rete capillare che rappresenta il 12,6% del totale nazionale. Non stiamo parlando di numeri emergenziali: gli accolti a fine 2023 rappresentano solo lo 0,3% della popolazione residente in Calabria. Eppure proprio questa ordinarietà – lontana dalle retoriche dell’invasione – è ciò che rende il sistema fragile e prezioso insieme.

Accanto a Riace sono fioriti altri modelli. Camini, con la cooperativa Eurocoop Jungi Mundu, può ospitare fino a 118 beneficiari e ha trasformato l’accoglienza in rigenerazione territoriale invertendo lo spopolamento. Il progetto Jungiterre, finanziato dall’Otto per mille valdese, ha avviato due cooperative tra Camini e Cinquefrondi per la produzione lattiero-casearia e il cicloturismo, impiegando venti giovani, migranti e locali. A Cardeto, prima della chiusura dello SPRAR, si è sperimentata un’integrazione tra famiglie guinee, nigeriane ed eritree e una comunità locale che ha dovuto vincere diffidenze alimentate da narrazioni tossiche.

Il cuore di questi modelli non è l’assistenzialismo ma la valorizzazione delle competenze. Nei laboratori di Camini, maestri artigiani locali affiancano apprendisti migranti in un ambiente interculturale che garantisce autonomia personale. Non si tratta di warehousing umanitario, ma di processi di empowerment che restituiscono dignità e prospettiva. Esistono anche esperienze più piccole ma significative, come l’Arci Djiguiya a Crotone, che insieme a Caritas e all’associazione Sabir gestisce servizi di base per persone senza fissa dimora, costruendo dal basso reti di solidarietà concreta.

Eppure anche in Calabria, terra di santi e briganti, le ombre sono lunghe. Il rapporto RimanDati di Libera sulla trasparenza dei beni confiscati alle mafie è un campanello d’allarme: la Calabria è tra le regioni meno trasparenti, con appena il 49,8% dei comuni che pubblica l’elenco dei beni confiscati. Ancora più grave: la Provincia di Crotone e la Regione Calabria sono tra i pochissimi enti che non pubblicano alcun elenco. Se la gestione dei beni sottratti alla criminalità è opaca, come fidarsi della gestione dei fondi per l’accoglienza? Nel 2023, gli affidamenti diretti per i CAS in Calabria hanno rappresentato quasi il 43% del totale, una percentuale preoccupante che riduce la trasparenza e alimenta il rischio di infiltrazioni. È vero che alcuni processi – compreso quello a Lucano – hanno poi ridimensionato specifiche accuse. Ma il sospetto sistemico rimane un problema strutturale in una regione dove la ‘ndrangheta non perdona distrazioni.

La sfida calabrese si gioca dunque su due fronti. Da un lato, c’è un modello virtuoso di “micro accoglienza diffusa” – quello praticato dalla Diaconia Valdese e da realtà come Camini – che inserisce le persone in appartamenti sul territorio, promuove autonomia e crea legami reali con le comunità. Dall’altro, persiste una gestione opaca, emergenziale, che tratta i migranti come numeri da parcheggiare nei megacentri governativi invece che come persone da integrare. Nonostante i progressi del SAI, in Calabria le persone ospitate nel sistema comunale restano una minoranza (41,7%), mentre il 58,3% è ospitato nel Cara di Isola Capo Rizzuto e nei CAS.

La Calabria ha una vocazione. Può diventare laboratorio di giustizia sociale o restare prigioniera dell’emergenza perpetua. La lezione di Riace – e della sua riabilitazione giudiziaria tardiva – è che l’accoglienza funziona quando si trasforma in tessuto sociale, in economia di comunità, in cittadinanza condivisa. Non basta confiscare beni alla mafia se poi non li si rende trasparenti e fruibili. Non basta accogliere migranti se poi li si ghettizza lontano dalle città, senza formazione né prospettive. La Calabria merita di essere ricordata non solo per Riace, ma per un sistema diffuso, pulito, efficace. Che faccia della micro accoglienza non un’eccezione romantica, ma la norma. Altrimenti, quel silenzio surreale che avvolge Riace diventerà il silenzio della resa.

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